Felix e il paradosso del Gatto di Schrödinger

Felix the Cat, personaggio dei fumetti degli anni Sessanta, raffigura il gatto di Schrödinger, che, a sua volta, rappresenta il paradosso dell’indeterminazione quantistica. All’inizio, in realtà, Erwin Schrödinger aveva inventato questo esperimento fittizio per sottolineare i limiti, e non la peculiarità, delle leggi alla base della Meccanica Quantistica che stavano per farsi largo nel campo della fisica teorica, Eppure esso ne divenne, successivamente, il simbolo. Siamo negli anni Venti del secolo scorso e il micromondo che si stava studiando sembrava funzionare in maniera del tutto assurda e contraddittoria, con premesse che si ponevano in antitesi ad alcuni postulati della fisica classica e pure della logica. Il microcosmo è, invece, regolato da un’«altra» descrizione di realtà in cui pure il tempo, pensate, perde di importanza fino a permetterci di dire che «non esiste» e che «è» solo in quanto «tenace illusione».

Ecco, nella Meccanica Quantistica il tempo non esiste. E Felix, oltre a rappresentare il gatto di Schrödinger, è intrappolato in un «senso non logico», che rappresenta anche l’«io» e la nostra stessa esistenza e, con essa, i nostri limiti. Ha scelto di vivere come semplice atto di «esserci» nel «tempo», in una realtà limitata, perché fine a sé stessa e perché circoscritta alla nostra percezione non oggettiva dei fatti. Felix, il gatto nero, infelicemente imputato di sfortuna, è, in realtà, la rappresentazione più azzeccata di noi stessi, perché di noi ha radicato il lato oscuro e indecifrabile dell’esistenza.

Ma Felix è anche «pop», perché, proprio come noi, sente il bisogno di togliersi di dosso il peso del mondo, di sfilarsi il suo vissuto, tremendamente emotivo, mutevole ma spesso sempre uguale e strutturato. Se il gatto dovesse essere paragonato agli atomi, potrebbe essere sia vivo che morto nello stesso momento. E questo paradosso nasce dal fatto che nella meccanica quantistica non si possono descrivere classicamente gli oggetti, ma si ricorre ad una rappresentazione probabilistica. Se tutto ciò è vero significa che la rappresentazione che abbiamo della realtà non è la realtà, e questa è ormai più una convinzione che una teoria.

Secondo il principio dell’indeterminazione quantistica di Heisenberg, di una particella non si possono conoscere le proprietà: più si illumina, più si perturba la particella che si vuole studiare. Ciò significa che noi non possiamo guardare una particella, noi possiamo guardare solo l’insieme di possibilità che essa può assumere, ben sapendo che più la osserviamo da vicino e più la probabilità di conoscerla diventa arbitraria e imprecisa. È tutto una probabilità di esistenza che si esplica in una delle esistenze possibili. E la vita riguarda il non sapere, il cambiamento, il vivere il momento, hic et nunc di quel «progetto gettato» che è l’uomo secondo Heidegger.

Siamo paradossi tramutati in verità? L’ indeterminismo è caos e il caos è vita, potenzialità, probabilità. Abbiamo ancora del caos dentro di noi, anche se lo vogliamo distruggere col rigore, ma questo caos è da tenere da conto perché è lo spirito dionisiaco, più di quello apollineo, a generare la «bellezza». Laddove il determinismo ha fallito, e con esso l’inflessibilità di Apollo, laddove l’ordine non ha funzionato, il dionisiaco come accettazione totale ed entusiastica del mondo come ebbra esaltazione verso l’irrazionalità e il dolore rappresenta invece la strada giusta per una vera e autentica esistenza.